Una delle occasioni in cui più spesso un profano delle Arti Marziali storce il naso entrando in un Dojo è quando il suo sguardo capita sul Kamiza e nota le foto dei Maestri dell’Arte, non di rado circondate da altri oggetti che possono far immaginare una sorta di rito religioso.

La qual cosa, è facilmente comprensibile, non è vista di buon occhio quasi da nessuno: l’ateo o l’agnostico spregeranno la venerazione dell’uomo verso l’uomo, non accettando neppure la reverenza dell’uomo al Divino; l’islamico osservante della Sunna considera impure le immagini di esseri viventi; il cristiano – allo stesso modo – le interpreterà come esempi di idolatria… ce n’è quanto basta insomma per attirarsi gli strali di credenti e non credenti.

La recente scomparsa del Maestro Massimo Aviotti e la scelta di esporre anche la sua immagine sul Kamiza del nostro Dojo mi ha spinto ad alcune riflessioni che ho ritenuto opportuno condividere per spiegare questa peculiarità delle discipline orientali, che tanto sembra confliggere con il comune sentire di molti. Occorre dire che – ahinoi – l’equivoco è spesso alimentato dagli stessi praticanti marziali, che troppo spesso tributano al loro Maestro, sia vivente che trapassato, una sorta di culto religioso al limite del settarismo.

Le spiegazioni di un siffatto comportamento potrebbero essere molte, a partire dalla considerazione storica che vede molte Scuole vantare come fondatore una divinità, un semidio o un essere più o meno soprannaturale; un modo come un altro per menare lustro alla propria Scuola, simboleggiare archetipicamente i principi alla base della stessa e – perché no – fare un po’ i gradassi con gli avversari e affascinare i propri membri. Va da sé che questo comportamento poteva avere un senso qualche secolo fa, oggi sarebbe il caso di esaminarlo alla luce degli studi storici, psicologici ed antropologici che potrebbero chiarire agli interessati molte scelte e simbologie del passato, senza nulla togliere alla validità della Scuola stessa.

Purtroppo in tanti cascano nella sindrome del gregge, e per motivi che meriterebbero l’analisi di uno specialista della psiche, hanno bisogno di sentirsi parte di qualcosa di “divino”, forse per potersi auto divinizzare quasi per osmosi. Ieri sui forum di discussione, oggi sulle pagine social, continuano gli scontri verbali dei fedelissimi che – più monarchici del re – si battono per dimostrare che “il mio Maestro è più migliore del tuo!!!” (sic).
A loro parzialissima discolpa vanno ascritte le leggende raccontate da Senpai a Kohai senza alcuno spirito critico e senza minimamente chiedersi cosa volessero davvero significare in origine e come siano giunte sino a noi, a volte con macroscopici difetti di traduzione o senza minimamente considerare i tempi e le società che li hanno originati (quanti karateka usano e abusano di “Oss!” senza minimamente chiedersi cosa significhi davvero?). In altre e semplici parole, possiamo anche accettare che un bambino creda che Pinocchio si trasformi da burattino di legno in fanciullo in carne e ossa o che il cacciatore tragga fuori dallo stomaco del lupo la nonna di Cappuccetto Rosso viva e vegeta, ma ad un adulto chiederemmo una minore credulità ed una maggiore capacità di analisi critica.

Questa lunga premessa per dire gli uomini le cui immagini sono sul Kamiza non sono divinità e non vanno adorati come tali; si tratta di uomini come noi, eccezionali nella loro visione spirituale o nella loro perizia tecnica ma sempre e comunque uomini come noi, con pregi e difetti, qualità e attributi, luci e ombre simili a quelle di tutti noi. Sono sul Kamiza non perché divini ma perché – pur essendo “umani, troppo umani” (per dirla alla Nietszche) sono riusciti ad essere d’esempio per i loro contemporanei e per i loro postumi.

Quelle immagini sono sul Kamiza non perché gli si debba rendere culto ma perché noi tutti si rivolga a loro il ringraziamento opportuno e dovuto a chi ci indica una strada e ci mostra il cammino. “Tradizione” significa etimologicamente “trasmettere”, un atto che avviene se c’è chi trasmette (ovviamente) ma anche chi riceve; l’uno non avrebbe senso senza l’altro, e salutare con un inchino quelle immagini all’inizio ed alla fine di ogni sessione di pratica sta a confermare – a noi stessi prima che ad altri – la nostra scelta di ricevere ciò che gli altri ci hanno dato, e il nostro impegno di trasmetterlo a nostra volta quando ve ne saranno le opportunità.

L’essere consapevoli della “umanità” dei Maestri passati non è mancare loro di rispetto, quanto piuttosto onorarli nelle loro capacità e – allo stesso tempo – privare noi di una facile scusa per giustificare il nostro scarso impegno o i risibili progressi. I Maestri non furono eccezionali perché divini; furono uomini come noi, e come loro quindi, noi potremmo raggiungere il loro livello, se ci impegneremo con la loro costanza e la loro dedizione. Si leggano le biografie dei Maestri più moderni: Ueshiba Morihei, Jigoro Kano, Gichin Funakoshi, Fu Chen Song, solo per citare i più noti, e leggeremo di persone spesso gracili fisicamente quando non malate, allenate di notte o sottoposte a pratiche ripetitive e al limite della ossessione per migliorare il minimo particolare, che spesso non erano neppure tra i migliori allievi dei loro istruttori eppure alla fine sono diventati chi oggi ricordiamo grazie alla loro perseveranza, alla loro passione, alla loro dedizione.

Quando ci inchiniamo davanti al Kamiza quindi, non veneriamo un Dio, non adoriamo un essere soprannaturale ma ringraziamo un uomo che – pur con tutti i suoi difetti – ci è di esempio ed ha qualcosa da insegnarci.

Sta a noi, prima e dopo il saluto, fare quanto possiamo per imparare. Solo così il nostro saluto avrà un senso compiuto e non sarà una ipocrita scimmiottatura, solo così onoreremo davvero la memoria e l’esempio dei Maestri passati.