Nato a Napoli nel 1958 Antonio Franchini ha cominciato molto presto a lavorare nell’editoria; nel 1991 è diventato curatore editoriale della narrativa italiana per la Arnoldo Mondadori Editore, che ha lasciato a ottobre 2015 per occuparsi della narrativa, della saggistica e della varia non illustrata per Giunti Editore.

In questo libro di meno di 200 pagine pubblicato nel 1996, oggi ripubblicato da Marsilio con una copertina diversa, l’autore parla delle sue due grandi passioni, il combattimento e la letteratura, scoperte in gioventù e coltivate con il passare degli anni.

In tanti cominciano la pratica delle Arti marziali per sentirsi più forti e sicuri di sé, una necessità che aleggi costante nelle pagine di questo libro, in cui la pratica fisica ed intellettuale pare essere un mezzo per conoscersi meglio e superare i limiti che ci vorrebbero imprigionare. Franchini scrive bene, basterebbe anche solo leggere la descrizione della sua esperienza di spettatore ad un allenamento di Judo per averne la prova: “La palestra di judo stava in un posto della città chiamato “cavalli di bronzo” perché le due statue equine scalpitavano, gocciolanti di salnitro, in cima ad un cancello, l’accesso secondario del Palazzo Reale. Da lì partiva, discesa lastricata larghe fette di pietra, una strada che colava giù sotto un ponte, una specie di varco nella muraglia a ridosso del porto militare, zona senza gente né case, grigio ferro, battuta solo da rari passi, che rintronavano, e dal vento ingolfato che soffiava dal chiuso specchio d’acqua nel quale galleggiavano le lance plumbee dei finanzieri e logoro acciaio di qualche incrociatore leggero.
La palestra di judo stava in un sottoscala e consisteva di un semplice tatami verde stinto, scollato dalla parete per un breve tratto di mattonelle, dove tutti i sandali allineati, modello infradito, sembravano aspettare come sulla spiaggia ritorno di una comitiva di bagnanti. Sulla parete c’era il ritratto di Jigoro Kano, con l’aria serenamente trapassata che aleggia sul volto degli orientali vecchi, e nello stanzone una fortissima puzza di piedi. Il maestro si chiamava Delle Vedove o Delle Mogli e, con quel rimando a un’incoerente idea di femminilità, mi sembro un cognome balordo.

Con buona pace della dicotomia corpo/spirito o – più brutalmente – di quella tra teoria e pratica, ancor più aggravata dalle nuove frontiere tecnologiche percui si può avere la “fortuna” di incontrare su forum di discussione telematica e social network esperti che conoscono a menadito curriculum di tecniche o genealogie di Scuole marziali senza aver versato molto sudore su ring o tatami, così come può accadere di incocciare in vere e proprie “macchine da guerra” che non hanno la minima consapevolezza dei principi alla base dell’Arte praticata, l’autore spiega che il combattimento non è solo ‘corpo’ e la letteratura non è solo ‘spirito’ e che entrambi sono un continuo, appassionato scontro con il proprio limite. Perché, sia le discipline che insegnano a incrementare la forza fisica sia quelle volte a allargare il patrimonio culturale non nascondono un analogo destino di sopraffazione, due volontà di potenza tra cui è difficile istituire una gerarchia.

Franchini non fa sconti; non ne fa alle illusioni del lettore ed alle ipocrisie delle arti, marziali e letterarie che siano. Lo fa raccontando i metodi brutali degli insegnanti che vessano gli allievi sul tatami, sul ring o sul parquet, di quanto la letteratura, per quanto possa essere sincera, non sarà mai in grado di raccontare tutta la realtà e che tanto la letteratura che le discipline di combattimento abbiano come fine la sopraffazione altrui.

Al pari delle Sirene di Ulisse Franchini incanta con le sue parole intriganti fino a farci scontrare contro gli scogli della realtà; si può essere guerrieri senza combattere e scrittori senza scrivere? Aneddoti edificanti e biografie di letterati divenuti famosi post mortem vorrebbero convincersi di si, ma non si tratta forse solo di una magra consolazione illusoria a fronte della consapevolezza che “allenamento e volontà possono molto sui limiti della natura, come perplessità e debolezza infinitamente possono contro i suoi doni“.

E’ curioso trovare in questo libro tali e tanti spunti di riflessione, collegamenti arditi e paragoni illuminanti; leggere di un Mishima paragonato a Foscolo e di un Leopardi usato come strumento di seduzione. Alternando a brevi riflessioni i ricordi e le esperienze, mescolando le tracce lasciate da una gioventù trascorsa in scantinati e palestre a un’assidua frequentazione della pagina scritta, l’autore ci racconta storie di giovani uomini e di grandi maestri, di orgoglio e di frustrazione, di eroismo e umiltà, eventi piccoli e grandi accomunati da una tensione a scoprirsi e a capire, oltre la patina che spesso ricopre il senso profondo delle cose, oltre le zone di dubbio, di convenzione, di vera e propria falsità. Gli incontri che facciamo seguendo il doppio tracciato delle arti marziali e della letteratura sono singolari e tutti ugualmente importanti.

E’ questo, un libro che parla di amore, di un amore tormentato e sofferto, con le sue gioie e le sue illusioni, le sue delusioni e le sue pazzie; un amore consapevole che l’amato non è perfetto, non corrisponde al ritratto ideale che l’amante si era fatto e che nonostante questo attrae a sé indissolubilmente chi abbia la ventura di incrociare il suo passo.

Antonio Franchini, non più giovane e non ancora vecchio decide di tracciare un solco, esprimere alcuni dubbi da cui tanti combattenti e scrittori sono attanagliati ma che non confesserebbero neppure sotto tortura (scrittori si nasce o si diventa? Tutti i Maestri di Arti marziali sono giusti e saggi?), mettere a nudo la sua anima, parlando di sé, di una madre secondo cui mangiare guarisce ogni male e rispecchiandosi nell’ombra fantasmatica di un eroico zio omonimo morto in guerra.

Un libro di ossessioni e di finzioni, l’ossessione di Mishima per un tardivo riscatto del suo corpo e quelle di frequentatori di palestre e culturisti, scrittori e pugili, e la finzione del combattimento che eseguito secondo le regole delle arti marziali (di una qualunque arte marziale) è essenzialmente finto, cioè privo dello scopo che sarebbe proprio e originario del combattimento (la salvezza di sé, l’uccisione dell’avversario), così come lo scrivere è un’attività che si confronta continuamente con “qualcosa” (con la morte, sembra accennare Franchini a più riprese) ma sempre ineluttabilmente per finta.

E pertanto lo scrivere in sé, non lo scrivere in quanto scrivere fiction ma lo scrivere in sé, appare come un’attività fittizia: non, quindi, l’attingere a “una forma superiore dell’essere umano“, ma piuttosto l’esercitare “un’abilità, una forma di perizia come tante“. Per uno come me, che ama le citazioni, questo libro è una ricca miniera, a partire da quella riportata nella quarta di copertina: “Ogni scontro comincia con le parole, la maggior parte degli scontri non va oltre le parole”.

Letta l’ultima pagina, si rimane nel dubbio nel voler classificare il genere appena letto: non è un romanzo, anche se ne ha a volte l’andamento; al pari non è una autobiografia o un diario. Non è neppure un saggio o un manuale, pur essendo più utile ed illuminante di manuali e saggi che fanno bella mostra di sé nelle vetrine delle librerie con gran spreco di maiuscole e punti esclamativi sui risvolti di copertina e sulla fascetta.

Certo è che merita la lettura e l’impegno nello scovarlo nonostante gli anni trascorsi dalla pubblicazione, perché contiene un insegnamento suggerito e non urlato, offerto e non imposto, il tutto in bello scrivere e senza masturbazioni egoiche ed intellettuali il che, lasciatemelo dire, è un caso non molto frequente nel panorama editoriale nostrano.

La prima volta che mi fu mostrata la possibilità di un rapporto diretto tra la letteratura e le arti marziali, partecipavo a una lezione di jeet kune do” (p. 27). “Il maestro (…) martellava il corpo dell’allievo con una progressione di colpi che partivano dalla lunga distanza, poi si appressavano, ogni tecnica annodandosi alla precedente: una leva che seguiva a una gomitata e una ginocchiata, fino alle prese di strangolamento a terra, quando il corpo della vittima era crollato. Di ogni tecnica il maestro sottolineava l’intercambiabilità” (p. 29). “Insomma, è come quando scrivete – continuò il maestro, imbarcandosi in un’analogia inaspettata – io v’insegno dei colpi che sono dei vocaboli, poi bisogna inserirli in concatenazioni che sono le frasi, la grammatica, ma quando diventerete più capaci, sarete voi a comporre le vostre frasi, cambiando, a vostra scelta, come quando scrivete...” (pp. 29-30).

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In questo libro Antonio Franchini intreccia le sue due grandi passioni, il combattimento e la letteratura, e si scopre, fra l’altro, che il combattimento non è solo “corpo” e la letteratura non è solo “spirito”, e che entrambi sono un continuo, appassionato scontro con il proprio limite. Perché sia le discipline che insegnano a incrementare la forza fisica sia quelle volte ad allargare il patrimonio culturale non nascondono un analogo destino di sopraffazione, due volontà di potenza tra cui è difficile istituire una gerarchia. Alternando a brevi riflessioni i ricordi e le esperienze, mescolando le tracce lasciate da una gioventù trascorsa in scantinati e palestre a un’assidua frequentazione della pagina scritta, l’autore ci racconta storie di giovani uomini e di grandi maestri, di orgoglio e di frustrazione, di eroismo e di umiltà, eventi piccoli e grandi accomunati da una tensione a scoprirsi e a capire, oltre la patina che spesso ricopre il senso profondo delle cose, oltre le zone di dubbio, di convenzione, di vera e propria falsità. Gli incontri che facciamo seguendo il doppio tracciato delle arti marziali e della letteratura sono singolari e tutti ugualmente importanti, da Simone, «ragazzo dall’aria distratta, con una sua evasiva bellezza» a cui bisogna dire solo «vai e fai vedere a questa gente cos’è la Savate», a Claudio, grande filologo classico e sollevatore di pesi, al grande maestro di spada Miyamoto Musashi, vissuto nel periodo Edo, a Hemingway, a Mishima, fino all’omonimo parente diventato eroe. E singolare è anche il fatto che questo libro, in cui il tema dell’aggressività, della lotta e in fondo anche della morte ricorre con tanta forza, sia stato scritto da un autore che fa parte della prima generazione nata e cresciuta senza vedere guerre.
(dalla seconda di copertina)