(Traduzione ed adattamento di “The Quantum Physics Language of Budo” di Nev Sagiba)

Il corpo-mente Umano, lo “Hito jinja” contiene tutte le forze dell’universo, sia che noi ne siamo consapevoli sia che lo ignoriamo; la maggior parte di queste rimane allo stato latente per tutta la vita.

L’esistenza è una matrice di generi ma molto di più. Qualunque sia l’attività in cui ci impegniamo, è necessario padroneggiarne le relative abilità per poterla eseguire al meglio.

Ci sono diversi grandi budoka fuori di qui, non fraintendetemi; rendere a parole ciò che intendo dire non è un compito facile. Recentemente sono stato rimproverato da una persona che io avevo lodato in un mio scritto ma evidentemente, lui ed i suoi associati hanno frainteso la cosa come fosse un malevolo pettegolezzo.

I fatti sono autorivelanti e le parole sono meri “cartelli stradali” usualmente incompresi senza un qualche grado di semiosi.

Bisogna dire che saltare sulla groppa di un cavallo e scenderne subito dopo non fa di noi dei cavallerizzi, non più di quanto si diventi marinai salendo su una barca piazzata sulla terraferma. Parlare di cibo abbondante non ci aiuta a sentirci sazi e recitare lo ABC o ripetere 1, 2, 3 non fa di noi dei compositori di manoscritti o dei fisici quantistici.

Eppure è proprio questo il modo in cui alcune persone praticano. “Se tu fai questo, io faccio quello” oppure si perdono nell’ego, nei confronti e perdono completamente di vista il nocciolo della questione.

Una abitudine cieca non è budo di alcun altro genere se non il punto di partenza per principianti e non c’è alcun bisogno di praticare per continuare a muoversi in maniera insufficiente. Per procedere attraverso livelli crescenti di capacità è necessario mettere continuamente alla prova le proprie pietre miliari e rifiutarsi di cadere nella trappola di considerarle delle locande in cui soggiornare a lungo.

La vera e duratura felicità non la si trova nella stagnazione ma piuttosto nel non perdere il contatto con la realtà. Tutti gli animali e le persone hanno punti deboli, e sopraffarli può provocare qualche disagio, ma è il prezzo che l’universo richiede per i processi di risveglio. Se noi falliamo nell’affrontare e risolvere i nostri punti deboli, noi continueremo a vagare all’interno dei nostri stessi problemi.

Ad esempio: alcune persone pensano che maai sia lo spazio tra due persone e allora smettono di pensare ed approfondire a questo fattore. Mentre questo concetto è adatto ai principianti, per i praticanti avanzati diventa una trappola.

“Chiudere la distanza” diventa un ostacolo, e quella distanza, la sua stessa idea, diventa sempre più grande ed insormontabile, quando non c’è alcun collegamento.

Fino a quando non si conoscono maai e musubi come fossero la stessa identica cosa, l’inizio del progresso non può cominciare ad emergere.

Lo stesso è per gli altri concetti del budo, che sono spensieratamente confrontati e liberamente discussi sino alla morte dai “maestri della tastiera” e nessun’altro.

Il budo ha un contesto ed è un linguaggio; un linguaggio è un insieme dinamico di simboli comunicativi di tipo visivo, tattile o uditivo, e degli elementi usati per utilizzare i simboli stessi.

C’è una sintassi definitiva per una interazione intensiva.

Nel linguaggio della Grecia classica, “syn” (insieme) e “tàxis” (sistemazione) è lo studio dei principi e delle regole per costruire le frasi di un linguaggio naturale. In aggiunta a quanto si riferisce alla disciplina, il termine “sintassi” è anche usato in diretto riferimento alle regole ed ai principi che governano la struttura delle frasi in ogni linguaggio individuale.

Questa definizione si può applicare anche al linguaggio dell’interazione dei movimenti.

Un accordo può essere definito come un incontro di menti, percui un conflitto può essere visto come uno scontro di menti.

In parole povere, la mente precede il corpo e con la sua intenzione genera una azione. l’addestramento al budo allora, può essere visto come un accordo per esplorare le possibilità di un disaccordo in modo che possa risultare in grado di gestire la discordia.

In Aikido, il risultato più bello è sforzarsi di raggiungere una riconciliazione e consentire di ottenere l’integrità.

La pratica “a memoria” non deve bloccare le infinite potenzialità tenute latenti, ma piuttosto queste devono essere sbloccate tramite esplorazioni più curiose e coraggiose.

Nulla si oppone al confronto più della paura.

C’è un punto mediano in cui risiedono transizioni e ostacoli, henkawaza (variazioni della tecnica di base, NdT) e kaeshiwaza (controtecniche usate da uke per contrastare la tecnica di tori, NdT). Questo aumenta l’abilità. Questo aumento di abilità aumenta la consapevolezza e la profondità della comprensione.

Da allora in poi questo diventa un Do, un metodo di risveglio.

Paradossalmente questo genera un paradigma dove le aumentate prospettive causano una diminuzione delle possibili espressioni violente. questo è il Do del Bu o Budo, la Via per l’arresto del conflitto.

Mi ricordo i primi tempi della mia pratica, quando fui fortunato a trovare una sistemazione durante i miei viaggi attraverso il paese per praticare con l’allora unico Maestro di Aikido della nazione. Una dolce signora greca del posto non riusciva a comprendere il concetto, che la ragione percui io mi allenavo a combattere era per un proposito di pace.

Lei non riusciva a pronunciare la parola “aikido” e si riferiva alla mia pratica come “I killer” (la frase in inglese si può tradurre come “io assassino”, si pronuncia all’incirca “ai killa” ed è quindi quasi omofona ad “aikido”, NdT), benedicendo la sua anima, e tenendomi incessantemente lezioni sul Pankrateon anche se non ne conosceva nulla eccetto che i suoi antenati erano, grazie a questa antica forma di lotta, dei guerrieri invincibili.

Gridare a caso parole senza senso non significa comunicare. Se inseriamo in un computer un programma compilato con errori e istruzioni insensate non otterremo nessun risultato utile. Non possiamo cuocere un cibo aggiungendo a caso uno o due ingredienti per poi temere di mescolarli o di averne aggiunti troppi. Oppure dipingere un quadro rigurgitandovi sopra solo delle semplici forme. E’ necessario imparare come COMBINARE, miscelare ed unire le parti in un contesto logico. Bisogna imparare e sapere il LINGUAGGIO e poi ARTICOLARLO. Da qui si ha il kihon waza, l’alfabeto di ogni arte, che è lo A,B,C e lo 1,2,3.

Ma c’è di più.

Il linguaggio del corpo-mente, lo hito-jijja è sottile nel nucleo e grossolano ai bordi esterni.

Trovare l’essenza è un viaggio che dura una vita e contiene cadute, prove, esami e tribolazioni, ma anche immense ricompense per chi persiste nell’impresa.

Ma è necessaria una mente indagatrice ed il coraggio di esplorare i potenziali e di sperimentare con le variabili in campo ed anche di tornare ripetutamente al centro alla ricerca delle radici, che si trovano nelle basilari tecniche fondamentali.

Le tecniche di base sono le chiavi che sbloccano ogni altra cosa e devono essere conosciute e comprese bene ad un livello pratico.

Solo allora diventano la rampa di lancio verso infinite possibilità.