Il kamiza in un Dojo non è un vezzo orientaleggiante o una forzatura verso un’altra cultura.
È, correttamente inteso, un ammonimento che ci indica la Via da seguire ed il modo di percorrerla; una indicazione muta, ma non per questo meno esplicita per chi abbia voglia e mezzi per intenderla. Parte integrante di questa Tradizione Universale e Perenne è la testimonianza dei Maestri, di cui non dobbiamo passivamente seguire le orme ma consapevolmente vivificare il lascito. Per questo, sul nostro kamiza, c’è la spada che anni fa mi donò Pino Casale, colui che per primo fu Maestro e fratello, e tale rimane ancora. C’è il jo che tanti anni fa mi regalò a Borgosesia il compianto Maestro Leone, con il suo affetto burbero e di poche ma efficaci parole, per augurarmi il buon esito dell’esame di Nidan buki waza che mi aggiungevo a sostenere.
Ci sono gli hachimaki ricevuti dal Maestro Paolo Nicola Corallini e da Masami Sasaki Shihan e Norio Sato Sensei come segno tangibile di essere parte di una famiglia che va oltre il tempo e lo spazio. Gelosamente custodite ci sono le parole vergate su carta dai Maestri Massimo Aviotti e Francesco Barreca e la tsuba del Maestro Claudio Regoli con il suo prezioso okuden. A vegliare su di loro il kakemono di Roberta Verdenelli e l’immagine del Fondatore dell’Aikido.
In realtà poi vi è anche altro di importante ma di cui è opportuno tacere perché – come ben sappiamo – “l’essenziale è invisibile agli occhi”.