Negli ultimi decenni la tecnologia ha sicuramente contribuito ad una rivoluzione epocale nel mondo della comunicazione.

E’ oggi possibile consultare una intera biblioteca distante migliaia di chilometri stando comodamente seduti davanti ad un computer a casa propria, oppure guardare immagini o filmati custoditi in archivi altrimenti inaccessibili. Tra i tanti effetti positivi di questa situazione, c’è sicuramente la possibilità di acquisire informazioni e conoscenze un tempo riservate ai soli esperti della materia, consultare antichi trattati magari disponibili in sole pochissime copie, confrontarsi con altri studiosi ed appassionati e elaborare ipotesi, discutere teorie, emendare errori, suggerire correzioni. Così, parlando del campo marziale, se da una parte questa sovrabbondanza di informazioni fa si che personaggi in malafede possano attribuirsi falsi percorsi di studi decennali o lunghe frequentazioni con Maestri in realtà conosciuti solo tramite filmati d’archivio su YouTube, dall’altra questa comunione di esperienze permette ai praticanti onesti di confrontarsi su ciò che si sa, su ciò che non si sa e su ciò che si crede di sapere, operazione tanto più utile quando si parla di discipline non di rado avvolte da un manto esoterico o risalenti a secoli – quando non millenni – addietro e tanto più efficace quando ci si confronta partendo da posizioni apparentemente diverse: Occidente vs. Oriente, Arti tradizionali vs. sport moderni, e così via.

Una lunga premessa questa per spiegare perché un praticante di Arti marziali di origine sino-giapponese come chi scrive abbia trovato particolarmente godibile il trattato curato da Marco Rubboli e Luca Cesari per i tipi della benemerita “Il Cerchio iniziative editoriali” e dedicato a “L’arte cavalleresca del combattimento” di Filippo Vadi, Maestro d’armi del XV° secolo. Apparentemente nulla di più lontano dai miei interessi per periodo cronologico, area geografico e tipologia di armi impiegate, ed invece, proprio perché è dalle differenze che nascono il frutti migliori, questo agile trattato, nelle sue 150 pagine, cela non pochi tesori.
Il primo, e più evidente, è la riproduzione a colori delle pagine del trattato, una chicca che manderebbe in brodo di giuggiole qualunque bibliofilo mediamente appassionato. Alla difficoltà di interpretazione di una lingua non sempre univocamente interpretabile (come ben chiariscono i due attenti curatori), suppliscono le pagine che riportano la tradizione puntuale di quanto spiega il Vada e – soprattutto – un ricco glossario tecnico che confronta quanto illustrato dal maestro d’armi pisano con gli insegnamenti di altri celebri Maestri, quali Fiore dei Liberi, Marozzo, Dell’Agocchie, Manciolino ed altri.

Ma non di sola tecnica vive il marzialista, ed alle già citate pregevolezze tecniche del libro se ne affiancano altre, forse non subitaneamente coglibili ma altrettanto importanti: la prima è senz’altro la prefazione di Franco Cardini (breve ma intensa!), che anticipa la ricca introduzione che da sola varrebbe l’acquisto del libro, in cui viene analizzata, tra gli altri argomenti, l’etica e la saggezza pratica di Filippo Vada nel descrivere le figure dello Schermitore e del Cavaliere. Sono distillati di saggezza acquisita al prezzo di sudore, dolore e fatica e sono tutt’ora attualissime, specie nelle parti in cui il Maestro pisano spiega come rapportarsi ai propri allievi ed agli altri insegnanti. Altrettanto interessante è la parte in cui il Vadi illustra i doni della scherma e di come questa pratica permetta di confrontarsi con le proprie paure (da tenere a mente quando qualcuno, come sempre accade, ci chiede perché facciamo quello che facciamo).

Ma tutto, questo – e non è poco – non è per me il pregio maggiore del libro, racchiuso invece nella avvertenza che si incontra appena girata la copertina: i due curatori, invece di cingersi il capo di alloro come pure avrebbero avuto ben diritto a fare, chiariscono i motivi che li hanno portati, a distanza di quasi vent’anni, a rimettere mano alla prima versione dell’opera da loro curata, emendandola di qualche refuso ma – soprattutto – arricchendola di nuovi elementi grazie all’emergere di nuovi testi di matrice italiana quattrocentesca che hanno fornito nuovi e fondamentali dati, utili alla interpretazione del testo del Vada. Con la sincerità d’animo che ogni vero marzialista dovrebbe avere, Marco Rubboli e Luca Cesari onestamente affermano che: “non si può e non si deve mostrare solo il punto di arrivo e nascondere il percorso, sconfessando così il proprio passato” (ammonimento che personalmente riporterei anche a chi passa da una Scuola all’altra, sconfessando oggi il Maestro che ieri adulava…) ribadendo che “il cantiere è sempre aperto” non escludendo ulteriori futuri aggiustaggi.

Noi di tutto questo non possiamo che ringraziarli, unendoci alle parole finali della prefazione di Franco Cardini e rimanendo incantati di fronte a Filippo Vadi.