Questo racconto è di origine cinese, ed è molto usato negli ambienti dell’arco tradizionale (Kyudo). Tuttavia si presta ad ogni genere di arte marziale

C’era una volta un giovane appassionato di arcieria. Egli dedicava ogni suo momento libero alla pratica della sua Arte, e non si separava mai da arco e frecce.
Questo giovane era divenuto allievo di un reputato maestro arciere della regione e lo seguiva continuamente, facendo tutto quello che il maestro gli diceva e traendo grande beneficio dai suoi insegnamenti.
Un giorno, vedendo il suo maestro in lontananza, venne in mente al giovane di provare chi di loro due fosse migliore e gli scoccò una freccia. Il Maestro era un grande osservatore ed ancora nel fiore degli anni; immediatamente scoccò una freccia di risposta che incontrò quella dell’allievo a mezz’aria. Il giovane allora tirò un’altra freccia, la quale fece la stessa fine, poi un’altra, ed un’altra ancora, fino a quando la faretra del maestro fu vuota. A quel punto il giovane tirò l’ultima sua freccia, ma il maestro, strappata una canna dal ciglio della strada, la pulì con un solo gesto e, usandola come freccia, neutralizzò l’ultimo dardo del suo allievo.

“È chiaro che non ho più nulla da insegnarti dopo oggi” disse il maestro al giovane raggiungendolo; “tuttavia mi sei caro e la tua arte sembra promettente, per cui ti darò l’indirizzo di colui che ancora oggi è il mio maestro; vai da lui che è l’unico a poterti dare ancora qualcosa in più”.
Il giovane partì e raggiunse questo grande maestro sulla montagna su cui viveva in eremitaggio; non fu facile trovarlo né venire da lui accettato, ma vi riuscì.
Questo maestro aveva dato alla sua arte una profondità che nessuno aveva ancora raggiunto. Il giovane lo vide compiere imprese ritenute impossibili: colpire uccelli in volo scoccando delle frecce immateriali da un arco invisibile, e poi guarire lo stesso uccello con un grido silenzioso. Non vi era giorno che il maestro non mostrasse delle nuove cose che venivano apprese avidamente.

Passarono gli anni ed il giovane, ormai cresciuto, finì il suo apprendimento e tornò al villaggio. Conduceva, al villaggio, una vita tranquilla e normale, eppure la gente che lo conosceva ed i suoi amici di un tempo si rendevano conto che qualcosa in lui era cambiato; sembrava quasi che da lui emanasse un’aura di calma, ed egli stesso era come immerso in un’atmosfera particolare. Non portava neppure più l’arco di cui era sempre stato orgoglioso e che un tempo non avrebbe mai abbandonato.

Un giorno, invitato a prendere il tè in casa di amici, vide in un angolo qualcosa di nuovo e ad un tempo familiare: un oggetto a lui sconosciuto che gli destava particolari sensazioni, e chiese cosa mai fosse.
“Tu devi essere veramente il più grande arciere del mondo” gli disse il padrone di casa inchinandosi profondamente: “per non sapere nemmeno più riconoscere un arco”.