Uno dei principi su cui abbiamo improntato la attività della nostra associazione, è quello di cercare di affiancare ad una pratica costante delle discipline che abbiamo scelto di esercitare, uno studio degli aspetti storici e culturali che in qualche modo le caratterizzano. Impresa improba ma entusiasmante, possibile soprattutto grazie ai tanti che – con pazienza e disponibilità – ci donano qualche perla del loro tesoro di conoscenza. Tra i benefattori più munifici c’è il Maestro Claudio A. Regoli, che unisce una esperienza marziale più unica che rara ad un “esprit” coinvolgente e irresistibile. Nel ringraziarlo per l’ennesima volta (e mai abbastanza!) per la sua gentilezza, proponiamo ai lettori una arguta riflessione su due categorie di persone in cui non pochi di noi non faticheranno a riconoscersi. Buona lettura. (N.d.R.)

Nel mondo degli apprezzatori della Spada Giapponese (Nihon To Ken: nome che comprende ogni genere di lama guerriera fatta in modo tradizionale) sembra esservi un divario incolmabile tra coloro che ne studiano il maneggio ed i collezionisti veri e propri che ritengono le spade opere d’arte da maneggiare poco e con reverente cura.
Ovviamente esistono pasticcioni eclettici come me o alcuni più validi amici che uniscono le due tendenze, ma oltre ad essere delle eccezioni,anch’essi spesso trasmettono ad una delle due fazioni le idiosincrasie dell’altra.
A ben vedere, entrambi gli atteggiamenti sono fondati, e, partendo da criteri diversi, hanno
altresì differenti metri di valore che ci sforzeremo di analizzare.

Cominciamo con coloro che utilizzano la spada in una delle arti a lei connessa: sia Kendo,
Kobudo (stili antichi), Iaido o altro. Essi sono decisamente i più rozzi; anche quando
posseggano una grande abilità che permette loro un maneggio raffinato, anche quando,
sentendo volare una farfalla dietro le spalle, riescano a sguainare fulmineamente e
fermare la lama di scatto davanti all’animale in modo da farvelo sbattere, nel momento della scelta dello strumento mostrano di avere dei concetti singolari, ed in mancanza di meglio si contentano di un pezzo di legno sagomato (che se ben maneggiato può anch’esso produrre gravi danni).

La lunghezza, ecco la prima preoccupazione, quasi si trattasse di maschilisti limitati. La più raffinata lama di Yamashiro (une delle “cinque scuole” della spada antica) o la più
stupefacente tempera in stile Soshu (un’altra delle cinque) viene trascurata a favore di un
“chiodo” che superi i mitici 71 centimetri. Misura assolutamente arbitraria e neanche tanto
richiesta dai Giapponesi dell’epoca Edo che invece vedevano nella lunghezza di cm.69 (2
shaku, 2 sun e cinque bu?) una lunghezza “fortunata”.

Viene poi la bilanciatura; anche se esiste un certo fascino per la lama larga (Come quelle di Soshu, per intenderci), una volta impugnata, la spada deve essere piacevole, ossia consona al gusto del singolo (io ho una predilezione per lame che i miei “amici” definiscono “da signorina”) da cui deriva direttamente una smodata propensione per gli sgusci (“hi”) che hanno in più il pregio di far fischiare la lama; mentre uno dei miei maestri osservava al proposito: “Quando tagli un corpo si riempiono di grasso e poi sono difficili da pulire”. Per il resto, in genere si seguono dei miti generici: “la punta di una spada da iaido dev’essere media, non lunga”. ”Per lo Iaido di Muso Shinden sono meglio le spade con una curvatura uniforme ( Torii zori)”, “la spada, completa di impugnatura, da terra deve arrivare all’ombelico”, o delle osservazioni nate dall’esperienza: una lama di Bizen (un’altra delle cinque scuole, anzi la più diffusa; il 70% delle spade di epoca Koto vengono da Bizen) a causa della sua curvatura più pronunciata verso l’impugnatura (koshi zori) richiede una certa familiarità con il tipo.

Vi é poi quella speciale categoria che di fronte ad una spada chiede “… ma taglia molto?”. Bisogna diffidarne: usano le spade per tagliare canne e pezzi di bambù. Oltre ad essere
pericolosi a volte per se stessi (chiedete pure in giro) riempiono il pavimento di pezzi di paglia bagnata ed una spada, anche se concepita per tagliare, soffre se la si fa tagliare troppo o malamente.

L’altra metà del mondo della spada, quella del collezionismo, la tratta invece un po’ come un quadro d’autore, un po’ come un libro di magia (capace, se consultata ammodo, di svelare arcani segreti) e molto come se fosse la cosa più preziosa del mondo (non si creda, condivido appieno). Poco importa che si tratti di lame smisurate, di temperini o di lame da inastare di forma poco usuale; oltre all’intrinseca bellezza della forma (“sugata” la prima cosa da osservare in un Nihon Token ) quello che conta é l’acciaio, il paesaggio formato dalla linea di tempra che a volte contiene, ora visibili e ora no, delle “attività” (hataraki) dai nomi poetici, o la struttura del metallo visibile sul lato della lama (ji-hada: la pelle del ji), in cui magicamente alle volte compare una seconda linea di tempra, chiamata Utsuri, di cui fino a poco tempo fa si credeva perduto il segreto di fabbricazione.
Queste lame non si conservano nella loro montatura, pronte all’utilizzo come sarebbe giusto, anzi, per alcuni estremisti la montatura distrae, é ,a volte, un orpello in più, bieco ricettacolo di umidità che provoca la ruggine. Molto meglio conservare le lame in liscissimi foderi di magnolia (shirasaya) appena incollati con colla di riso in modo da poter essere scollati ed ispezionati onde necessario.

Anche i maneggiatori hanno le loro visioni sulle montature, come sempre dettate dalle
necessità dell’uso: quindi, aihimé occorre rinunciare alle parti metalliche contenenti differenti coloriture del metallo: una magia in cui gli artigiani Yamato eccellevano e riuscivano in cose oggi quasi impossibili. Ma queste patine scompaiono con il maneggio continuo, per poi ricomparire, a volte, dopo circa un anno. Stesso discordo con i foderi, che se troppo ornati impacciano, e se laccati con figure, si consumano.
Per questi problemi spesso si adotta una soluzione drastica: via la montatura preziosa per
antichità o bellezza, e si riveste la lama con una montatura d’uso, più semplice e sacrificabile.

Altro argomento di separazione, la politura stessa della lama: mentre il collezionista brama una lama perfettamente pulita “alla moderna” (in cui, la lama non dovendo più essere usata per tagliare, viene polita che mettendo in risalto il jihada. Un tempo questo valore estetico si sacrificava a favore di un minore attrito) e tra le due politure possibili (Keisho: in cui il politore armonizza, con il sapiente uso delle ultime pietre, le varie parti della lama e sopratutto la yakiba, la linea di tempera, ottenendo “l’effetto del trucco su una bella donna”. Sashikomi: in cui la sapienza dell’artefice consiste nel far risaltare anche il più infimo particolare) spesso preferiscono sashikomi: una politura un po’ “didattica”.
Chi utilizza la lama invece, dovendola nettare ogni volta che la usa, sa che gli ultimi stadi della politura, il passaggio dell’Ibota ( una polvere ricavata da insetti) e del nugui ( un ossido di ferro ottenuto spesso filtrando “le faville del maglio”) sono destinati a scomparire e quindi ne fa anche a meno: più raffinata é infatti la politura, più risalta l’usura. Poi, non dimentichiamolo, polire significa togliere micron di spessore, quindi , alla lunga, compromettere la piena efficienza.

Quale dei due mondi ha ragione? Probabilmente entrambi, o perlomeno, tutti e due hanno una ragione di esistere; e se é vero che anche i bravissimi spadai moderni non devono perdere di vista che il primo scopo di una lama, anche se assolutamente teorico, é quello di tagliare, e quindi devono tenere in considerazione chi la lama la usa, é altresì vero che é grazie a chi apprezza la lama anche come puro valore estetico e come pezzo di bravura che esiste ancora, anzi fiorisce la produzione di lame tradizionali.