Quasi non passa giorno che non giunga notizia di qualcuno che oggi pretende di insegnare le discipline che ieri denigrava.

Avendo frequentato alcune lezioni di catechismo cattolico prendo in considerazione l’ipotesi che – novelli Saulo – si possa essere fulminati sul tatami lungo la Via di Damasco, comprendendo che la bontà di quanto un tempo spregiavamo.
Ammesso che questa conversione sia sincera, il consiglio che rivolgo ai potenziali allievi di codesti Fregoli del Budo è sempre lo stesso, mutuato dall’esperienza di insegnanti più saggi di me: chiedete al vostro insegnante chi sono i suoi maestri, quanto tempo ha studiato con loro e con che frequenza li incontra. Poi, con il massimo rispetto, chiedete comunque se i loro maestri sanno di averli come allievi perché pare brutto a dirsi ma scanner, Photoshop e stampanti a colori hanno dato la possibilità a millemila cazzari di inventarsi lignaggi a dir poco improbabili.

Prendiamo, come sempre, esempio dai nostri avi; in passato, e spesso ancora oggi, nei paesi più piccoli e ancora legati ad un certo tipo di interazione sociale, allo “straniero” appena incontrato venivano rivolte tre domande: “Chi sei? Da dove vieni? A chi appartieni?”, l’ultima delle quali mirata a conoscere quale fosse la sua famiglia/clan di origine, specifica ancora più importante in quelle realtà come le piccole comunità dove si possono contare molti casi di omonimia, con quattro o cinque cognomi che raccolgono più della metà della popolazione.

Ecco quindi che, ripetiamolo ancora, in certi ambito è ovviamente sempre l’individuo a contare per se stesso (nel bene e nel male) ma è comunque importante sapere sulle tracce di chi percorre il suo cammino.