Capita spesso a chi di Arti marziali sa poco, ma purtroppo – il che è più grave – capita altrettanto spesso anche a chi di Arti marziali dovrebbe saperne un po’ di più.

Si resta abbagliati dal lucore della storia, dal fascino della leggenda, dall’ammaliante quanto fasulla bellezza della teoria che sia l’Arte a fare l’Uomo, mentre – purtroppo o per fortuna – è stato, è e sarà sempre vero il contrario.

Ci si illude che basti indossare un keikogi fresco di bucato per sbiancare immediatamente anche la propria coscienza; si crede che sia sufficiente impugnare un vibrante fioretto d’acciaio perché la nostra morale si mantenga diritta come la sua lama; ci si illude che far svolazzare bastoni di quercia renda la nostra parola inflessibile come le armi che sfarfalliamo.

No, non è così.
Ci piacerebbe che lo fosse, ma non è così.

Perché se così fosse carceri e riformatori sarebbero pieni di tatami e parquet, ed all’atto del fine pena verrebbe consegnato, insieme alla ritrovata libertà, anche un menkyo kaiden, un certificato di Maestria, un attestato di proficienza.

Invece l’uomo è uomo, e resta tale in mutande, in hakama o col giubbetto paracolpi di cuoio.
E’ vero, certo che è vero che numerosi confronti si sono evoluti in reciproca conoscenza e non a caso molti duelli sono passati alla storia come confronti di intelletto più che di sole armi. Nel primo caso, valga come esempio quanto avvenne nel momento in cui le armate europee si confrontarono con i “mori” africani: quello che era uno scontro di civiltà apparentemente agli antipodi diventò, sia pure per pochi, una occasione di reciproco incontro, con i crociati templari che strinsero rapporti con i mistici sufi e, addirittura, San Francesco che incontrò in Terrasanta il Saladino. Nel secondo caso, ricordiamo il Cyrano de Bergerac che accompagna i suoi colpi di fioretto alle altrettanto pungenti facezie della sua lingua o gli scambi di brevi frasi augurali o filosofiche tra samurai sul campo di battaglia.

Il generale giapponese del XVI° secolo Uesugi Kenshin, nel fervore della battaglia, si era spinto avanti da solo fino a giungere, non visto, sino all’accampamento del suo avversario Takeda Shigen che sorprese seduto e protetto da pochi guerrieri. Kenshin, giuntogli alle spalle, estrasse la spada e la lasciò cadere di piatto sulla testa di Shingen, chiedendo: “Cosa direste in questo momento?” Era un classico “mondo” – quesito Zen che il Maestro rivolgeva all’Adepto per saggiarne la maturità. Shingen rispose imperturbabile: “Un fiocco di neve cade sulla stufa infuocata” parando il colpo con il ventaglio di ferro che simboleggiava il comando. Un’altra volta Kenshin sorprese di notte l’accampamento di Shingen ma, invece di attaccare sfruttando la favorevole occasione, mandò all’avversario un messaggio che diceva: “Domani all’alba vi attaccherò. Provate a vincermi. Vi auguro un onorevole successo.”

Questo è il lato luminoso, bello, onorevole, elevato.
Poi c’è l’aspetto oscuro, spiacevole, ignobile, spregevole.

Quello della furia assassina, della violenza cieca, della crudeltà eccessiva e spietata.
C’è anche quella, in ognuno di noi, e chiunque sia tanto ingenuo da negarla a sé stesso preghi almeno per essere consapevole che certamente la avrà il suo avversario ed è da quella, principalmente, che dovrà guardarsi.
La sottile scorza di civiltà con cui si presentiamo all’esterno ci mette un attimo a lacerarsi ed a far uscire le Furie che in noi albergano assetate di sangue.

Ricordiamocelo sempre, prima di voltare le spalle ad un nemico sconfitto, sicuri che apprezzerà la nostra pietà e ci ripagherà con altrettanto rispetto.
Ricordiamocelo sempre, perché questa è una lezione che quasi mai viene ripetuta, spesso per la morte dell’allievo negligente.