In una discussione di diverso tempo fa, Enrico Lorenzi, un esperto schermidore ed utente del mai troppo lodato Forum di Arti Marziali (oramai da tempo naufragato nel mare della Internet), affrontava con approccio metodologico da studioso e ricercatore analogie e differenze tra i trattati d’arme occidentali ed i Makimono orientali.

Riassumendo il tutto ai minimi termini, si può affermare che anche se entrambi avevano lo scopo di riprodurre tecniche, principi e strategie di una Scuola o di una disciplina, i trattati spesso avevano un approccio più aperto e didattico, mentre i compilatori dei Makimono usavano non di rado un linguaggio criptico e fortemente simbolico, con lo scopo di velare i segreti ai non iniziati. Ma non tutti hanno la possibilità, il tempo, le conoscenze e l’esperienza per analizzare simili opere, così può capitare che interessanti spunti di riflessione vengano forniti – a chi ha occhi per vedere – anche da opere apparentemente più “leggere”, ma redatte però da autori che abbiano avuto esperienze belliche o marziali di qualche tipo.

E’ questo il caso di Torquato Tasso e della sua “Gerusalemme Liberata”, che ci illustra – con lo spirito e la sapienza che lo contraddistingue – messer Gianluca Zanini in uno scritto di qualche anno fa, con una analisi che non mancherà di farci rileggere questo grande classico con un approccio affatto diverso da quello, spesso noioso, dei banchi di scuola. (N.d.R.)

Pochi forse sanno che tra i cantori italiani del poema cavalleresco, solo il Tasso fu elevato al rango di schermidore e la sua “Gerusalemme Liberata” fu annoverata tra quelle opere letterarie schermisticamente più interessanti.

Cominciarono a rivalutare il Torquato e la sua opera i maestri di scherma tra la fine del1700 e l’inizio del 1800, tra i quali i più famosi sono il Rosaroll e il Grisetti, ma dobbiamo aspettare la fine del secolo perché un insigne studioso e schermidore come il piemontese Alberto Cougnet scrivesse due bellissime opere, dove possiamo ammirare una profonda analisi tecnica della “Gerusalemme Liberata” ed una serie interessante di aneddoti sulla vita del Tasso.

Non entro qui nel merito della sua analisi tecnica, ma basti sapere che se il Boiardo e l’Ariosto scrissero di duelli e combattimenti iperbolici dove la scherma centrava quasi come elemento fantastico, la competenza del Tasso in materia strideva parecchio in confronto ai primi due.

Ecco come il suo Tancredi divenne l’eroe romantico per eccellenza dei maestri.

Ma tornando alle fonti storiche, accanto al fatto che dopo la morte della madre il Tasso vagherà per le corti di mezza Italia insieme al padre (uomo di corte), ed avrà modo di frequentare i maestri d’arme più famosi del periodo e di presenziare a molti tornei e giostre, ci sono alcuni elementi che lo rendono ancora più interessante.

Nel 1564 è all’università di Bologna e dopo essere stato accusato per aver scritto un libello satirico contro l’istituzione, è costretto a scappare ed a darsi alla macchia.Ma dove va il Torquato a rifugiarsi? A casa di Guido Rangoni.
E allora?
Beh, i Rangoni erano i mecenati del Marozzo, ai quali dedicherà la sua “Opera Nova”.
Un caso, o il Tasso frequentò la scuola bolognese?

Poi salta fuori che in una edizione dell’opera dell’Agrippa si trova un incisione sotto la quale troviamo scritta l’autenticazione della stessa firmata da Torquato Tasso.
Ancora lui anche a Milano? Si direbbe “come il formaggio grattugiato”.

Vorrei entrare nel vivo del poema, ma pria ho da dir due cose….

Tancredi, l’eroe del Tasso, è la figura del tipico eroe decadente: bello, bravo e sfigato. Così sfigato che nel canto dodicesimo si trova ad uccidere la donna (extracomunataria per giunta!) di cui è follemente innamorato, perché celava la sua identità sotto l’armatura.

Ahimè, sempre di tre Dei l’anima dello schermidor ha da soffrir l’assedio: Marte, Venere e Bacco!

(Nota: di seguito sono riportati in corsivo i versi della “Gerusalemme Liberata”, ed in stampatello neretto i commenti di Gianluca Zanini)

52
Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
degno a cui sua virtú si paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: “O tu, che porte,
che corri sí?” Risponde: “E guerra e morte.”

53
“Guerra e morte avrai;” disse “io non rifiuto
darlati, se la cerchi”, e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti

e giù botte da orbi, ma notate la scena: la descrizioni dei colpi, il passeggio e la misura

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Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l’ombra e ‘l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre ‘n moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.

56
L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or piú si mesce e piú ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

Scena vera da UFC barocco! E poi l’ammazza, ahimè tapino.

63
Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto
cessi, che tutto prima il volse e scosse,
non s’accheta ei però, ma ‘l suono e ‘l moto
ritien de l’onde anco agitate e grosse,
tal, se ben manca in lor co ‘l sangue vòto
quel vigor che le braccia a i colpi mosse,
serbano ancor l’impeto primo, e vanno
da quel sospinti a giunger danno a danno.

64
Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente.

poveraccio il nostro Tancredi che altro può dire se non

La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

Non approfitterò della vostra cortese indulgenza, ma non può finire questo post senza il duello tra Tancredi e Argante, come descritto nel canto diciannovesimo.

11
È di corpo Tancredi agile e sciolto,
e di man velocissimo e di piede;
sovrasta a lui con l’alto capo, e molto
di grossezza di membra Argante eccede.
Girar Tancredi inchino in sé raccolto
per aventarsi e sottentrar si vede;
e con la spada sua la spada trova
nemica, e ‘n disviarla usa ogni prova.

12
Ma disteso ed eretto il fero Argante
dimostra arte simile, atto diverso.
Quanto egli può, va co ‘l gran braccio inante
e cerca il ferro no, ma il corpo averso.
Quel tenta aditi novi in ogni istante,
questi gli ha il ferro al volto ognor converso:
minaccia, e intento a proibirgli stassi
furtive entrate e súbiti trapassi.

Il Tasso conosce perfettamente i vantaggi e gli svantaggi del combattimento tra il piccolo e il grande di statura: il grande tiene l’arma in linea e tira di prima intenzione perché dalla sua c’è la misura, il piccolo deve cercare un attacco sull’arma, parare e rispondere continuando a muoversi.

13
Cosí pugna naval, quando non spira
per lo piano del mare Africo o Noto,
fra due legni ineguali egual si mira,
ch’un d’altezza preval, l’altro di moto:
l’un con volte e rivolte assale e gira
da prora a poppa, e si sta l’altro immoto;
e quando il piú leggier se gli avicina,
d’alta parte minaccia alta ruina.

14
Mentre il latin di sottentrar ritenta
sviando il ferro che si vede opporre,
vibra Argante la spada e gli appresenta
la punta a gli occhi; egli al riparo accorre,
ma lei sí presta allor, sí violenta
cala il pagan che ‘l difensor precorre
e ‘l fère al fianco; e visto il fianco infermo,
grida: “Lo schermitor vinto è di schermo.”

Tancredi para una punta al viso ma trasporta la spada avvera che gli ferisce un fianco. Possiamo immaginare un trasporto di quarta in seconda ?

15
Fra lo sdegno Tancredi e la vergogna
si rode, e lascia i soliti riguardi,
e in cotal guisa la vendetta agogna
che sua perdita stima il vincer tardi.
Sol risponde co ‘l ferro a la rampogna
e ‘l drizza a l’elmo. Ove apre il passo a i guardi.
Ribatte Argante il colpo, e risoluto
Tancredi a mezza spada è già venuto.

16
Passa veloce allor co ‘l piè sinestro
e con la manca al dritto braccio il prende,
e con la destra intanto il lato destro
di punte mortalissime gli offende.
“Questa” diceva “al vincitor maestro
il vinto schermidor risposta rende.”
Freme il circasso e si contorce e scote,
ma il braccio prigionier ritrar non pote.

Qui il Nostro Tancredi va alle prese in passata e infilza il “pagano” Argante

17
Alfin lasciò la spada a la catena
pendente, e sotto al buon latin si spinse.
Fe’ l’istesso Tancredi, e con gran lena
l’un calcò l’altro e l’un l’altro recinse;
né con piú forza da l’adusta arena
sospese Alcide il gran gigante e strinse,
di quella onde facean tenaci nodi
le nerborute braccia in vari modi.

18
Tai fur gli avolgimenti e tai le scosse
ch’ambi in un tempo il suol presser co ‘l fianco.
Argante, od arte o sua ventura fosse,
sovra ha il braccio migliore e sotto il manco.
Ma la man ch’è piú atta a le percosse
sottogiace impedita al guerrier franco;
ond’ei, che ‘l suo svantaggio e ‘l rischio vede,
si sviluppa da l’altro e salta in piede.
Qui abbrazano fino a cadere

19
Sorge piú tardi e un gran fendente, in prima
che sorto ei sia, vien sopra al saracino.
Ma come a l’Euro la frondosa cima
piega e in un tempo la solleva il pino,
cosí lui sua virtute alza e sublima
quando ei n’è già per ricader piú chino.
Or ricomincian qui colpi a vicenda:
la pugna ha manco d’arte ed è piú orrenda.

20
Esce a Tancredi in piú d’un loco il sangue,
ma ne versa il pagan quasi torrenti.
Già ne le sceme forze il furor langue,
sí come fiamma in deboli alimenti.
Tancredi che ‘l vedea co ‘l braccio essangue
girar i colpi ad or ad or piú lenti,
dal magnanimo cor deposta l’ira,
placido gli ragiona e ‘l piè ritira:

21
“Cedimi, uom forte, o riconoscer voglia
me per tuo vincitore o la fortuna;
né ricerco da te trionfo o spoglia,
né mi riserbo in te ragione alcuna.”
Terribile il pagan piú che mai soglia,
tutte le furie sue desta e raguna;
risponde: “Or dunque il meglio aver ti vante
ed osi di viltà tentare Argante?

22
Usa la sorte tua, ché nulla io temo
né lascierò la tua follia impunita.”
Come face rinforza anzi l’estremo
le fiamme, e luminosa esce di vita,
tal riempiendo ei d’ira il sangue scemo
rinvigorí la gagliardia smarrita,
e l’ore de la morte omai vicine
volse illustrar con generoso fine.

23
La man sinistra a la compagna accosta,
e con ambe congiunte il ferro abbassa;
cala un fendente, e benché trovi opposta
la spada ostil, la sforza ed oltre passa,
scende a la spalla, e giú di costa in costa
molte ferite in un sol punto lassa.
Se non teme Tancredi, il petto audace
non fe’ natura di timor capace.

24
Quel doppia il colpo orribile, ed al vento
le forze e l’ire inutilmente ha sparte,
perché Tancredi, a la percossa intento,
se ne sottrasse e si lanciò in disparte.
Tu, dal tuo peso tratto, in giú co ‘l mento
n’andasti, Argante, e non potesti aitarte:
per te cadesti, aventuroso in tanto
ch’altri non ha di tua caduta il vanto.

Argante commette l’errore fatale di doppiare il colpo, Tancredi scansa e lui cade ancora

25
Il cader dilatò le piaghe aperte,
e ‘l sangue espresso dilagando scese.
Punta ei la manca in terra, e si converte
ritto sovra un ginocchio a le difese.
“Renditi” grida, e gli fa nove offerte,
senza noiarlo, il vincitor cortese.
Quegli di furto intanto il ferro caccia
e su ‘l tallone il fiede, indi il minaccia.

Tancredi ancora non vuole finirlo, e il saracino tenta di ferirlo alla vigliacca.

26
Infuriossi allor Tancredi, e disse:
“Cosí abusi, fellon, la pietà mia?”
Poi la spada gli fisse e gli rifisse
ne la visiera, ove accertò la via.
Moriva Argante, e tal moria qual visse:
minacciava morendo e non languia.
Superbi, formidabili e feroci
gli ultimi moti fur, l’ultime voci.

Tancredi finalmente gli spinge un paio di stoccate in faccia.