Nelle Arti marziali l’aspetto simbolico è presente in ogni aspetto della pratica; tanto il gesto apparentemente più semplice quanto la tecnica più complessa e arzigogolata non sono mai fini a sé stesse ma hanno diversi livelli di lettura ed interpretazione.

Chiariamo subito una cosa, che in qualche modo definisce i due estremi entro cui delimitare la nostra analisi; da una parte qualunque gesto non può essere privo di una sua intrinseca utilità pratica e questo per un motivo tanto banale da essere dato a volte colpevolmente per scontato.

Efficacia, ma non solo

Tanto le Arti marziali tradizionali (termine generico entro cui potremmo comprendere – consapevoli del rischio di superficialità – quelle codificate prima del secolo scorso) che quelle più moderne che dalle tradizionali hanno tratto origine e ispirazione hanno come primo e necessario obbiettivo la loro efficacia ed efficienza applicativa.

Per quanto lo sviluppo delle armi da fuoco abbia ovviamente limitato in maniera notevole l’utilizzo delle tecniche di lotta corpo a corpo in campo aperto, dobbiamo sempre ricordare che queste nascono dal principio “mors tua, vita mea” mirato a neutralizzare un avversario in maniera definitiva e nel minor tempo possibile. Se una tecnica, una disciplina, una Scuola non soddisfavano questo primo e fondamentale requisito, erano destinate ad evolversi o a scomparire, tertiun mon datur.

Questo significa che se oggi noi non riusciamo a cogliere di una tecnica, una disciplina o una Scuola la sua applicazione pratica, il difetto è tutto nel nostro occhio, a patto – ovviamente – che si tratti di una tecnica, una disciplina o una Scuola con origini e lignaggio chiaro e definito e non una invenzione raffazzonata che scimmiotta malamente qualcosa di malcompreso.

La seconda considerazione è che qualunque situazione metta l’uomo di fronte alla possibilità della morte propria o altrui genera in chi la vive una serie di emozioni; se questa esperienza è costante e ripetuta nel tempo nasce l’esigenza di sviluppare strumenti e percorsi psicologici che consentono di elaborare ed interiorizzare il vissuto emotivo. Questi strumenti – oggi come ieri – spesso investono anche l’aspetto spirituale, altro termine che utilizziamo consapevoli della sua genericità.

In altri termini, salvare la vita o dare la morte vengono viste come facoltà “divine”, che possono essere acquisite ed esercitate attraverso un percorso che spazia dal religioso allo spirituale, attraverso una ritualizzazione di gesti ed azioni specifiche che col tempo diventano parte integrante della pratica parziale stessa.

Ecco quindi che nel curriculum tecnico di alcune Scuole sono comprese sequenze di movimenti che sono veri e propri esorcismi, volti a purificare il luogo di pratica dalla presenza di spiriti maligni e dalle “scorie emotive” dei praticanti oppure mirate a placare il desiderio di vendetta dell’anima dell’avversario ucciso in duello. In alcuni casi questo aspetto “sottile” è riservato agli studenti avanzati, in altri casi la componente spirituale è evidente sin dalla pratica dei principianti.

Ovviamente ogni luogo ha le sue peculiarità, e quindi l’Occidente è diverso dall’Oriente, il Nord Europa è differente dall’area mediterranea come la Cina differisce dal Giappone; alla stessa maniera nella stessa area geografica in tempi diversi possiamo avere diverse usanze e credenze e quindi in questa sede si farà un ragionamento necessariamente generico e superficiale, facendo riferimento all’area sino-giapponese degli ultimi secoli, rimandando ad altre sedi i lettori interessati ad ulteriori approfondimenti.

L’abito non fa il monaco

Di ogni verità, anche il contrario è vero”, afferma il principe Siddharta nell’omonimo romanzo di Hermann Hesse, e lo stesso si potrebbe dire dei proverbi. Così, se quanto affermato dal detto nel titolo è confermato dalla saggezza popolare, è altrettanto vero che alcune condizioni di vita sono espresse in maniera evidente proprio attraverso un abbigliamento specifico: non solo l’appartenenza ad un ordine religioso, ma anche ad un corpo militare attraverso una divisa specifica o ad una determinata professione, come nel caso della toga dell’avvocato.

Tornando alle Arti marziali quindi, vero è che l’abbigliamento indossato dai praticanti ha principalmente le caratteristiche di consentire la esecuzione delle tecniche in maniera comoda, efficace e sicura, ma è altrettanto vero che nella maggior parte delle discipline, attraverso alcuni particolari dell’abbigliamento, si esprimono l’appartenenza ad una determinata Scuola o il livello raggiunto, come nel caso delle cinture colorate per il Judo o il Karate o l’indossare la hakama per lo Aikido.

Anche in questo caso, limitandoci ai due esempi citati, le motivazioni pratiche e l’impiego simbolico sono strettamente intrecciati e così, se è vero che – come affermano in molti – “la cintura serve solo a tenere su i pantaloni”, è altrettanto vero che la cintura è molto più che una semplice striscia di stoffa colorata. Annodare la cintura in una determinata maniera ci aiuta a lasciare fuori dal Dojo gli affanni e gli impegni quotidiani per immergerci nel “qui ed ora” della pratica, la cui costanza e intensità è testimoniata poi dallo stato d’usura della cintura stessa.

E’ convinzione comune che la cintura rappresenti l’esperienza del praticante e non vada mai lavata per non “cancellare” quanto faticosamente imparato, è suggestivo quindi immaginare che da bianca la cintura diventi sempre più scura con l’aumentare dell’esperienza e che quindi – una volta divenuta nera – testimoni del lungo periodo di pratica di chi la indossa, è affascinante pensare che con il proseguire della pratica la cintura subisca l’usura del tempo e dell’uso e si sfilacci, mostrando la sua anima interna di colore bianco, indicando così che il praticante si è “liberato” della tecnica diventando un tutt’uno con l’Arte, raggiungendo la libertà dalle tecniche codificate ed acquisendo la “mente del principiante” con la consapevolezza dell’esperto.

Anche intorno alla hakama vi sarebbe molto da dire; chiaro ed evidente in suo utilizzo pratico (sia come protezione delle gambe dei cavalieri che come strumento per impedire movimenti rapidi e fluidi all’interno dei castelli feudali) più dibattuto il suo simbolismo, legato sia al colore scuro complementare a quello della divisa di pratica nel richiamare la dualità Yin/Yang che al numero delle pieghe che si vuole debba richiamare le virtù morali del samurai.

Solo su questi due indumenti vi sarebbe molto altro da dire, ma i limiti imposti da questo scritto impongono di arrestarci qui, non prima di ricordare un aneddoto personale che risale all’inizio della mia carriera marziale, quando l’essenza di quello che poteva sembrare solo un formale rispetto della tradizione o una specie di bardatura quasi carnevalesca mi fu invece chiara in uno dei primi seminari di Aikido a cui partecipai: Era una domenica di metà settembre di qualche anno fa a Città di Castello, la giornata assolata fece decidere Paolo Corallini Shihan per un allenamento all’aperto invece che all’interno del palazzetto dello sport che ci ospitava, così una cinquantina di persone, abbigliate con pantalone e casacca bianchi e armate di spade e bastoni presero posto su un campo di calcio sotto lo sguardo un po’ stupito ed un po’ ironico di una decina di persone che giocavano sul campo di fianco.

Cogliendo l’imbarazzo di alcuni di noi, il M° Corallini spiegò i concetti sopra esposti: “Sarebbe stato meno imbarazzante e anche più comodo – disse all’incirca – praticare in jeans e maglietta invece che in keikogi ma in questo caso avremmo fatto solo ginnastica e non avremmo praticato un’Arte marziale. Praticare un’Arte marziale significa anche rispettare le tradizioni e seguire una etichetta specifica, non perché qualcuno voglia giocare ai samurai, che appartengono ad un altro tempo e ad un’altra terra, ma per onorare lo spirito e i principi alla base dell’Arte, che non hanno né tempo né luogo.

Pronto a tutto e tutto è pronto

Concludiamo così queste riflessioni riportando un ultimo esempio che dimostra quanto la necessità pratica e la simbologia si richiamino l’una con l’altra nel momento del cambio di abito prima di una sessione di pratica marziale.

Si tratta di un modo di agire abbastanza diffuso in Giappone, che unisce la decenza comune e l’essere preparati ad ogni evenienza, due concetti che dovrebbero (il condizionale è d’obbligo…) caratterizzare ogni praticante marziale, qualunque sia il suo livello di esperienza.

In breve, sarebbe opportuno che quando un praticante entra nello spogliatoio del Dojo e comincia a spogliarsi degli abiti civili per indossare il keikogi, procedesse per fasi successive ovvero – ad esempio – togliendo prima la parte superiore dell’abbigliamento quotidiano (camicia, giacca, maglione) per poi indossare lo uwagi (parte superiore del keikogi) mantenendo ancora indosso la parte inferiore dell’abbigliamento quotidiano.

Dal punto di vista pratico, questo permette di non rimanere senza pantaloni se ha il bisogno di spostarsi velocemente da qualche parte, necessità da tenere presente in una terra come quella nipponica in cui terremoti ed incendi erano eventi tutt’altro che rari, ed ancora più probabile in un ambiente come quello marziale in cui potevano verificarsi invasioni del Dojo da parte di Scuole rivali.

Dal punto di vista simbolico questa fase di transizione richiama il già citato dualismo dello Yin/Yang e riporta la nostra attenzione sul “qui ed ora” e su dove siamo, dove eravamo e dove saremo.

Ovviamente, una volta indossato lo uwagi si può passare a sfilare i pantaloni e ad indossare lo zubon, completando poi la vestizione con la legatura dell’obi che se all’atto pratico comporta essere pronti a cominciare la nostra pratica, dal punto di vista simbolico rappresenta una vera e propria trasformazione alchemica.

Ovviamente, al termine della pratica, la sequenza del cambio dell’abito si svolge in maniera inversa, seguendo la stessa procedura e sempre avendo cura di non essere mai completamente nudi durante il cambio d’abito.