C’è una pratica comune a tutti i Dojo in cui si praticano discipline tradizionali giapponesi; una pratica che pur non essendo direttamente collegata ai principi delle Arti praticate, può a buon diritto considerarsi parte integrante della pratica stessa.
Si tratta del Soji, la pulizia degli ambienti del Dojo che dovrebbe essere eseguita al termine di ogni sessione di pratica. Questa pulizia – oltre ad avere una evidente utilità pratica – ha anche un profondo significato simbolico e per questo andrebbe effettuata da tutti i presenti, dal principiante ultimo arrivate ai praticanti più anziani, nessuno escluso.
Pulizia esterna e interna
Come sempre, analizzare i caratteri che compongono il termine che che stiamo esaminando ci fornisce interessanti indicazioni; Soji è composto da due kanji 掃除, a loro volta composti da due radicali. Soji può essere tradotto come “spazzare, spolverare, strofinare” ed esprime quindi il concetto di pulire un oggetto o un ambiente.
Il primo carattere 掃 (Sō), preso singolarmente può anche lui essere tradotto come “spazzare” ed è un composto ideogrammico ottenuto affiancando il pittogramma 手(Te) che rappresenta una mano con il pittogramma 帚 (Sō) che riproduce invece l’immagine di una ramazza posta in verticale con il manico in basso e le setole in alto. Un carattere quindi che in tutta evidenza esprime anche visivamente l’idea di impugnare una scopa e pulire un pavimento, anche se in tempi più recenti è usato per indicare la scansione elettronica di un documento..
Il secondo kanji è 除 (Ji) e può essere tradotto come “rimuovere” ma anche “dividere” o “spogliarsi”; si tratta di un composto fono-semantico ottenuto con il radicale阜 (Bo) che indica un tumulo, uno sbarramento o una diga ed il carattere 余 (yo) che esprime i significati di “oltre, troppo, ciò che avanza” ma anche di “me stesso”, poiché deriva da una serie di caratteri cinesi che i re della dinastia Shang usavano per per riferirsi a se stessi.
Dalla pulizia alla purificazione
Quindi 掃除 potremo tradurlo sia come “spazzare ciò che è di troppo, eliminare ciò che non serve” ma anche come “pulire me stesso”, con implicazioni simboliche che sarebbe superfluo approfondire.
Questo secondo significato è confermato dalla origine del Sojo, che è appunto un antico rituale di pulizia del luogo di pratica delle discipline tradizionali, marziali e non solo.
Si tratta di una vera e propria pulizia rituale, eseguita non solo nei Dojo tradizionali, ma anche nelle scuole pubbliche e non di rado anche negli uffici ed in altri luoghi di lavoro. Una pratica balzata agli onori della cronaca in occasione delle ultime competizioni calcistiche internazionali, in cui i giocatori nipponici lasciavano i loro spogliatoi completamente puliti ed in perfetto ordine.
Si tratta di una pratica che affonda le sue radici nello Zen e nello Shinto, nella convinzione che l’ottenimento della purezza spirituale e la chiarezza mentale è direttamente correlata con la pulizia materiale.
Tutti per Uno
Nella pratica, al termine di ogni sessione di pratica, tutti i presenti (o – nel caso di strutture relativamente piccole – solo alcuni volontari) puliscono il tatami usando scope o appositi stracci. Come detto – oltre alla evidente utilità pratica – questa attività è considerata particolarmente utile per la crescita e la formazione dell’individuo nel percorso intrapreso, un modo per controllare il proprio Ego, per esprimere il proprio interesse al bene comune e la cura per ciò che viene lasciato a chi verrà dopo.
Per questo motivo, tutti i presenti partecipano al Soji, indipendentemente dal loro grado ed anzianità di pratica; sebbene spesso sia eseguita dai praticanti novizi, è bene che anche i più esperti diano il loro contributo, poiché nel Dojo ciascuno è parte integrante della pratica comune.
Particolarmente importante è poi il Soji che viene eseguito in occasione di momenti quali la ripresa delle lezioni dopo la pausa estiva o all’inizio del nuovo anno. In questo caso, oltre alla pulizia eseguita quotidianamente, tutto il Dojo – dal Kamiza agli spogliatoi – è oggetto di una accurata pulizia, a significare l’idea di voler mettere da parte ciò che è passato per lasciare spazio a ciò che verrà, come mirabilmente raccontato nell’aneddoto della tazza di tè offerta da un maestro Zen ad un professore universitario occidentale.