La recente pandemia di Covid-19 ha sconvolto abitudini che – almeno nel mondo occidentale – ritenevamo consolidate. In pochi mesi – per non dire settimane – ciò che ritenevamo usuale, normale, quasi banale, è diventato strano, difficile, pericoloso.

Strade vuote, bar e ristoranti deserti, mezzi pubblici contingentati, scuole e luoghi di lavoro considerati luoghi infetti da guardare con sospetto, negozi e supermercati in cui ogni oggetto poteva essere un potenziale veicolo di infezione e via dicendo. Anche l’attività sportiva – che più di tante altre è stata per secoli considerata indispensabile per assicurare la salute fisica e psicologica del praticante – vietata, bandita, sterilizzata.

Non è certo questo il luogo per giudicare cosa e come è stato fatto; ciascuno di noi ha la sua opinione e sarà la Storia – forse – a dirci chi aveva ragione. Quello che sappiamo è che questa stagione epocale ha necessariamente comportato una rivoluzione anche in un mondo tradizionalmente legato a regole quasi immutabili, come quello delle Arti marziali.

Passati i primi mesi di stupore, è stato un fiorire di canali YouTube, lezioni a distanza, corsi online e seminari e stage via Zoom, Meet e piattaforme simili. Anche in questo caso, c’è chi ha agito in buona fede, tentando di salvare il salvabile per mantenere emotivamente coeso un Dojo fisicamente atomizzato; e chi ha speculato come chi vende a caro prezzo una bottiglietta d’acqua nel deserto, a volte riciclandosi come “insegnante” (volutamente tra virgolette…) di una materia, di una disciplina, di un’Arte a volte mai prima di allora neppure studiata.

Come prima, i giudizi andrebbero sempre ponderati e anche la situazione peggiore può portare qualcosa di buono; certo in pochi mesi abbiamo (volenti o nolenti) acquisito dimestichezza con modalità comunicative prima mai sperimentate; abbiamo potuto sentirci vicini – sia pure solo attraverso uno schermo – compagni di pratica e Maestri fisicamente ubicati dall’altra parte del mondo, abbiamo avuto il tempo di rispolverare pratiche e routine che avevamo messo da parte per pigrizia o necessità più pressanti.

Certo è che è difficile rinunciare ad una abitudine acquisita, specialmente quando solletica la nostra pigrizia e sembra essere la soluzione ideale per conciliare i tanti impegni che lavoro, famiglia e vita sociale ci squadernano avanti ogni giorno. E così, non pochi sono coloro che – cessata l’emergenza pandemica – faticano a mettere keikogi e zoori in borsa, a ritrovare la via del Dojo, a risalire sul tatami. A che pro, ci si dice, quando posso fare tutto da casa, davanti al mio computer o il mio smatrphone, magari anche in differita, quando ho tempo e voglia? Perché affrontare il gelo dell’inverno e il caldo dell’estate? Perché lottare con le docce dello spogliatoio e il sudore del compagno di pratica? Perché guidare per ore e cercare parcheggio quando si può avere tutto a portata di mano e quando ci fa più comodo?

Provo a dare una mia risposta, stimolato dalle impressioni di un seminario tecnico di Ju Jutsu svoltosi a Torino, organizzato dal Comitato Regionale Piemonte e diretto – tra gli altri – dal M° Rosavio Greco. Si dice che per avere una opinione oggettiva di un evento bisogna osservarlo con un po’ di distacco, così mi permetto di condividere queste mie impressioni su come ho percepito questo stage da non partecipante (per eventi non dipendenti dalla mia volontà).

Se dovessi condensare tutto in una frase, sapendo quanto il Maestro Rosavio Greco ami i brocardi e le massime latine, direi: “Ubi maior, minor cessat, perché ognuno dei partecipanti – dai Maestri agli allievi, dalle cinture bianche a quelle biancorosse – ha rinunciato a qualche vantaggio personale in favore del bene di tutti. Non approfondisco oltre la descrizione dell’evento specifico, perché chi c’era è ben consapevole dei momenti vissuti e chi non c’era potrebbe non credere che gli organizzatori non solo hanno reso la partecipazione gratuita ma hanno addirittura offerto un pranzo completo agli ospiti (solo per citare il particolare più eclatante).

Perché allora partecipare ad uno stage o ad un seminario oggi? Perché togliere tempo alla famiglia, organizzarsi con il lavoro, far quadrare i conti di casa per poter acquistare il biglietto di viaggio e prenotare un posto per dormire quando oggi va di moda l’online?

Est modus in rebus (lo avevo detto, che le citazioni latine non sarebbero mancate!) e quindi esiste una misura nelle cose, determinati confini al di là e al di qua dei quali non può esservi se non il giusto, almeno l’opportuno. E sebbene le moderne tecnologie informatiche e telecomunicative azzerino le distanze e offrano opzioni utilissime e comodità innegabili, con la possibilità di zoomare sul singolo particolare e rivedere al ralenti un singolo movimento, pure il “sangue, fatica, sudore e lacrime” che oggi chiede il tatami sono un prezzo equo per il valore che si riceve.

Nonostante i vantaggi del metaverso, nonostante il realismo dei visori tridimensionali, nonostante lo strabiliante coinvolgimento offerto dalla realtà virtuale, nonostante ciò che se non oggi, domani ci offrirà la Intelligenza Artificiale con pochi click, determinate conoscenze passeranno ancora e sempre da cuore a cuore prima ancora che da bocca a orecchio dal Maestro all’allievo, in un rapporto diretto che è fisico ed emotivo, razionale e spirituale, fatto di fiducia reciproca e di impegno costante. Oggi possiamo leggere in un libro o ascoltare in un video una dissertazione sulla storia di una disciplina e sui principi filosofici di un’Arte; possiamo approcciarci razionalmente all’essenza biodinamica e gravitazionale di una tecnica ed alla importanza di uno spostamento, di un movimento, di una azione ma nulla come il tatami, nulla come l’esperienza diretta, nulla come vivere l’attimo in un “qui ed ora” irripetibile renderà quella esperienza indelebile e fruttuosa.

Oggi abbiamo a disposizione una biblioteca tecnica virtualmente infinita, fatta di video, testi, immagini; una possibilità che anche solo un paio di decenni fa era inimmaginabile e che oggi è alla portata di tutti. Ma io – che a quello stage di Torino di metà gennaio non ci sono stato – non potrò mai sapere cosa hanno vissuto coloro che su quel tatami ci sono potuti essere.

Piaccia o non piaccia, il valore di ciò che otteniamo è conseguente al prezzo che siamo disposti a pagare per ottenerlo, e ben misero è colui che immagini si tratti qui di mero valore venale commisurato agli euro sborsati. Partecipare ad un seminario o ad uno stage è oggi – e credo sarà anche domani – una esperienza unica dal punto di vista umano, ancor prima che tecnico. Piegare il keikogi e la hakama, salutare il Maestro, abbracciare i compagni di pratica, viaggiare verso casa, magari ricopiare alcuni appunti ci permette di ricordarne i momenti salienti, imprimerli nella nostra memoria, riviverli nel nostro cuore; un vantaggio che nessuna comoda realtà virtuale potrà mai compensare.