Capita a volte, leggendo riviste del settore, di notare che un occidentale viene designato come soke di una scuola tradizionale di Arti marziali giapponesi.

La cosa può essere dovuta a malafede oppure ad ignoranza del significato del termine e, per contribuire a fare un po’ di chiarezza, cominciamo col dire che il titolo di soke è solitamente ereditario ed è trasmesso da padre a figlio (sia che ci sia una diretta discendenza di sangue che una adozione legale).

Il termine, usualmente (e riduttivamente) tradotto come “capo scuola” , può essere interpretato come “colui che è messo a capo di una casa” o, traducendo letteralmente i kanji, “colui che attende ai riti e alle funzioni della famiglia“. E’ quindi colui che adempie ai doveri della propria casa o del proprio clan e la rappresenta in modo formale nelle occasioni sociali.

Dunque il significato del termine non è solamente tecnico, come spesso si crede, ma abbraccia un campo ben più vasto di quello della pratica di una Ryu tradizionale. Il soke è, in altri termini l’ultimo discendente, in linea genealogica, del fondatore della Ryu, identificata spesso con lo stesso nome del clan.

Nel passato, il responsabile di una scuola marziale era necessariamente anche il rappresentante della propria famiglia, dato che la conoscenza veniva trasmessa da padre in figlio. Poteva anche accadere che, per impossibilità sopravvenute, nella pratica marziale, la responsabilità nella pratica venisse affidata ad una sorta di reggente, il “Soke Kioju Dairi” che insegnava al posto del soke fino a quando questi non avresse raggiunto l’età o la preparazione per esercitare il suo ruolo.

I diversi gradi di maestria nell’arte vengono invece indicati con termini diversi (shihan, renshi, kyoshi, hanshi, ecc.) antecedenti la gradazione in Dan ed aventi in comune tra loro la particella –shi– che, per l’appunto, indica la maestria e la preparazione in una Arte tradizionale giapponese, marziale o no che sia. Quindi il soke non è necessariamente il “più bravo” della Ryu, se non altro perché spesso la sua anzianità di pratica è inferiore di molti anni rispetto a quella degli uchideschi (allievi interni) più anziani, ma è però colui che, quasi sempre per diritto di sangue, ha il compito di rappresentare la scuola, preservandone tradizioni, riti ed usanze per trasmetterle ai suoi successori così come le ha ricevute.

Nelle arti marziali tradizionali di origine nipponica quindi, chi si proclama soke o è l’erede di una famiglia in cui la genealogia lo autorizza a potersi fregiare di quel titolo (una specie di “principe ereditario”, insomma che può anche essere adottato qualora il soke in carica non abbia figli in grado di succedergli), oppure ha fondato un suo stile, completamente nuovo o più spesso derivato da una Ryu già esistente, cosa che accadeva, ad esempio, quando un allievo particolarmente preparato fondava una “ha-Ryu”, ovvero una “sotto-scuola” che, partendo da tecniche e principi della Scuola madre, li applicava o sviluppava in maniera più o meno differente da questa.

Tertium non datur, dicevano i nostri padri latini, al di fuori di queste due possibilità non vi sono eccezioni e chiunque affermi di essere il soke di una Ryu che non ha fondato lui o un membro della sua famiglia è credibile tanto quanto l’indimenticato Totò quale “Principe di Capri”.